Crimini israeliani

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Bernie Sanders: «Palestinian lives matter» Le vite dei palestinesi contano.

Moni Ovadia: “Politica Israele infame e senza pari, strumentalizza shoah”

“Io sono ebreo, ma le vittime sono i palestinesi abbandonati da tutti”

1) Fino quando deve durare la colonizzazione e l’occupazione della terra di Palestina?
2) Perché Israele non vuole la soluzione dei due stati?
3) Perché Israele non vuole la soluzione di uno stato unico binazionale? 4) Qual è l’alternativa che si dà ai palestinesi?
5) Perché per il dissidente russo Navalny si fanno boicottaggi, sanzioni economiche e campagne mediatiche ma per le sistematiche violazioni israeliane della legalità internazionale non si fa nulla?
6) L’orientamento di Hamas può anche essere condannato ma ciò è sufficiente per negare ai palestinesi il diritto alla propria terra?

 

Norman Finkelstein, figlio di sopravvissuti all’olocausto, spiega” perché i palestinesi hanno il diritto morale e legale di difendersi dall’occupazione e dall’apartheid loro imposti da Israele. ricordatelo quando sentite brividi pro-israeliani”  lamentarsi dei “razzi”

     

Noam Chomsky

           Ci sono sempre nuovi colpi di scena, ma in sostanza è una vecchia storia, che risale a un secolo fa, che assume nuove forme dopo le conquiste israeliane del 1967 e la decisione di 50 anni fa, da entrambi i principali gruppi politici, di scegliere l’espansione rispetto alla sicurezza e alla diplomazia. insediamento – anticipando (e ricevendo) il supporto diplomatico e materiale degli Stati Uniti cruciale fino in fondo. Per quella che divenne la tendenza dominante nel movimento sionista, c’era un obiettivo fisso a lungo termine. In parole povere, l’obiettivo è liberare il paese dai palestinesi e sostituirli con coloni ebrei considerati i “legittimi proprietari della terra” che tornano a casa dopo millenni di esilio. All’inizio, gli inglesi, allora in carica, generalmente consideravano giusto questo progetto. Lord Balfour, autore della Dichiarazione che concede agli ebrei una “patria nazionale” in Palestina, ha catturato abbastanza bene il giudizio etico dell’élite occidentale dichiarando che “il sionismo, giusto o sbagliato, buono o cattivo, è radicato in una tradizione secolare, nel presente bisogni, nelle speranze future, di importanza molto più profonda dei desideri e dei pregiudizi dei 700.000 arabi che ora abitano quell’antica terra “. I sentimenti non sono insoliti. Da allora le politiche sioniste sono state opportunistiche. Quando possibile, il governo israeliano – e in effetti l’intero movimento sionista – adotta strategie di terrore ed espulsione. Quando le circostanze non lo consentono, utilizza mezzi più morbidi. Un secolo fa, il dispositivo era quello di installare silenziosamente una torre di guardia e una recinzione, e presto si trasformerà in un insediamento, fatti sul terreno. La controparte oggi è lo stato israeliano che espelle ancora più famiglie palestinesi dalle case in cui vivono da generazioni – con un gesto verso la legalità per salvare la coscienza di coloro che in Israele vengono derisi come “anime belle”. Naturalmente, le pretese legalistiche per lo più assurde per l’espulsione dei palestinesi (leggi ottomane sulla terra e simili) sono razziste al 100%. Non si pensa di concedere ai palestinesi il diritto di tornare alle case da cui sono stati espulsi, nemmeno il diritto di costruire su ciò che è rimasto loro. Le conquiste israeliane del 1967 hanno permesso di estendere misure simili ai territori conquistati, in questo caso in grave violazione del diritto internazionale, poiché i leader israeliani sono stati immediatamente informati dalle loro più alte autorità legali. I nuovi progetti sono stati facilitati dal cambiamento radicale nelle relazioni USA-Israele. Le relazioni prima del 1967 erano state generalmente calde ma ambigue. Dopo la guerra hanno raggiunto livelli di sostegno senza precedenti per uno stato cliente. La vittoria israeliana è stata un grande regalo per il governo degli Stati Uniti. Era in corso una guerra per procura tra l’Islam radicale (con sede in Arabia Saudita) e il nazionalismo laico (l’Egitto di Nasser). Come la Gran Bretagna prima di esso, gli Stati Uniti tendevano a preferire l’Islam radicale, che consideravano meno minaccioso per il dominio imperiale degli Stati Uniti. Israele ha distrutto il nazionalismo laico arabo. L’abilità militare di Israele aveva già impressionato il comando militare degli Stati Uniti nel 1948, e la vittoria del ’67 rese molto chiaro che uno stato israeliano militarizzato poteva essere una solida base per il potere degli Stati Uniti nella regione, fornendo anche importanti servizi secondari a sostegno degli obiettivi imperiali degli Stati Uniti. al di là. Il dominio regionale degli Stati Uniti si fermò su tre pilastri: Israele, Arabia Saudita, Iran (allora sotto lo Scià). Tecnicamente erano tutti in guerra, ma in realtà l’alleanza era molto stretta, in particolare tra Israele e la micidiale tirannia iraniana. All’interno di quel quadro internazionale, Israele era libero di perseguire le politiche che persistono oggi, sempre con un massiccio sostegno degli Stati Uniti nonostante occasionali schiamazzi di malcontento. L’obiettivo politico immediato del governo israeliano è quello di costruire un “Grande Israele”, inclusa una “Gerusalemme” ampiamente ampliata che comprenda i villaggi arabi circostanti; la valle del Giordano, gran parte della Cisgiordania con gran parte della sua terra coltivabile; e le principali città nel profondo della Cisgiordania, insieme a progetti infrastrutturali per soli ebrei che li integrano in Israele. Il progetto aggira le concentrazioni della popolazione palestinese, come Nablus, in modo da respingere quello che i leader israeliani descrivono come il temuto “problema demografico”: troppi non ebrei nel previsto “stato ebraico democratico” del “Grande Israele” – un ossimoro più difficile in bocca ogni anno che passa. I palestinesi all’interno della “Grande Israele” sono confinati in 165 enclavi, separati dalle loro terre e dagli uliveti da un esercito ostile, sottoposti a continui attacchi da violente bande ebraiche (“giovani in cima alle colline”) protette dall’esercito israeliano. Nel frattempo Israele ha stabilito e annesso le alture del Golan in violazione degli ordini del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (come ha fatto a Gerusalemme). La storia dell’orrore di Gaza è troppo complessa per essere raccontata qui. È uno dei peggiori crimini contemporanei, avvolto in una fitta rete di inganni e apologetica delle atrocità. Trump è andato oltre i suoi predecessori nel fornire libero sfogo ai crimini israeliani. Un contributo importante è stato l’orchestrazione degli accordi di Abraham, che hanno formalizzato accordi taciti di lunga data tra Israele e diversi dittatori arabi

 

Chiara Cruciati 

EDIZIONE DEL12.05.2021

PUBBLICATO11.5.2021, 23:57 

Meir Margalit non è un osservatore qualsiasi delle trasformazioni vissute da Gerusalemme negli ultimi decenni. Ebreo israeliano nato in Argentina, dal 1998 al 2014 è stato membro del consiglio comunale per il partito della sinistra sionista Meretz. Tra i fondatori dell’associazione Icahd, il comitato contro la demolizione delle case palestinesi da parte delle autorità israeliane, nel libro Gerusalemme la città impossibile (Edizioni Terra Santa) ha raccontato quella che lui chiama una non-città, modello di una diseguaglianza istituzionalizzata.

Com’è cambiata Gerusalemme in questi ultimi decenni?

È cambiata in peggio per la congiunzione di tre elementi pericolosi: Trump e la pressione dell’evangelismo fondamentalista; il governo Netanyahu e la pressione dei piccoli partiti di destra che vogliono dimostrare di essere più nazionalisti di lui; e l’amministrazione del sindaco nazionalista religioso Moshe Leon. Tre elementi che hanno portato l’umiliazione dei palestinesi a livelli mai visti prima. Per questo una simile esplosione era solo una questione di tempo: i palestinesi non solo sono stati colpiti profondamente dalla pandemia dal punto di vista economico e sociale perché molti di loro lavoravano nel settore turistico, nei ristoranti e negli hotel e hanno perso una fonte di sostentamento che non hanno recuperato, ma anche perché da anni vivono un’umiliazione senza precedenti. In questi ultimi mesi, inoltre i coloni stanno compiendo un enorme uno sforzo di occupazione delle case palestinesi prima che l’amministrazione Biden si organizzi in merito. Uno sforzo colossale a Sheikh Jarrah, Silwan, in città vecchia. Sono convinti che le cose cambieranno a breve, per questo usano una violenza mai vista prima.

Nel suo libro lei descrive la politica israeliana a Gerusalemme come un intreccio di micropoteri, di burocrati e funzionari anonimi, e come laboratorio sociale di controllo.

Questa occupazione non avrebbe potuto concretizzarsi senza un esercito di funzionari che quotidianamente si incaricano di reprimere il palestinese, per spingerlo a lasciare la città e spostarsi in Cisgiordania e dunque rafforzare la maggioranza ebraica. Molti di questi funzionari non sono persone cattive, molti votano anche a sinistra, ma la dinamica è questa: nell’orario di lavoro ubbidiscono alle direttive politiche, un’obbedienza che l’impiegato impara negli anni del servizio militare: fai quello che ti dicono. Poi spostano questa cultura sul posto di lavoro. Così, in ogni ufficio pubblico statale e municipale, tutti lavorano per la destra. E visto che sono anni che la destra è al governo, o è la destra che sceglie tra i suoi i dirigenti o sono gli stessi impiegati che si spostano a destra per salire di livello. È una forma molto brutale, ma silenziosa: nessuno dice all’impiegato di maltrattare il palestinese, ma l’impiegato sa che è questo che vuole il governo o il sindaco.

Così succedono cose come quelle viste questa settimana: la polizia ha impedito ai palestinesi di sedersi sulle scale di fronte alla Porta di Damasco. Non perché qualcuno gli abbia ordinato di farlo, ma perché i poliziotti sanno che è quello che il ministero della sicurezza interna si aspetta. Ciò si traduce in delle situazioni paradossali.

L’occupazione miliare a Gerusalemme assume diverse forme, amministrativa, culturale, politica, architettonica. È possibile parlare di due città, una israeliana e una palestinese?

Gerusalemme è una non-città, perché una città ha bisogno di un denominatore comune tra i suoi abitanti, che qui non esiste. Ci sono tre città: una palestinese, una laica ebraica e una religiosa ebraica. Sono pianeti distinti: ci sono contatti perché alcuni palestinesi lavorano nella parte ovest, ma non ci sono relazioni umane. La guerra è continua e i periodi di tranquillità tra una battaglia e un’altra sono effimeri perché l’occupazione continua a esistere. Sugli israeliani questo ha un effetto: se un paese vive così per più di 70 anni, la gente si evolve nella violenza. Si disumanizza. Per questo gli israeliani sono indifferenti alla sofferenza palestinese: la violenza si è normalizzata, naturalizzata. E per questo la destra è così forte in Israele. Ci servirebbe un vaccino contro la militarizzazione o una terapia psichiatrica per tutti noi israeliani. Di certo senza la comunità internazionale non usciremo da questo pantano.

Se Gerusalemme è un modello di quello che avviene nel resto della Palestina, qual è la soluzione? C’è chi parla di superare la soluzione di due Stati a favore di uno Stato unico, democratico e laico

Gerusalemme è il microcosmo del conflitto in tutto il Medio Oriente. Io considero la fine dell’occupazione la soluzione dei due Stati l’unica possibile. Gran parte della sinistra è frustrata e ha già sollevato la bandiera bianca di fronte alla realtà, io cerco di mantenermi presente in questa lotta. Se mi si chiede cos’è la mia utopia, certo, è uno Stato unico democratico e laico per tutti. Ma oggi penso sia più reale pensare a una divisione in due Stati indipendenti. E magari in futuro pensare a una confederazione. Gerusalemme potrebbe convertirsi in un micromodello di città unificata ma divisa in due capitali: ovest capitale israeliana, est capitale palestinese, aperte e congiunte. Un micromodello complesso e unico al mondo, una divisione funzionale e non territoriale, sarebbe folle pensare di tracciare una frontiera divisa da un muro.

Tornando a questi giorni, con le tensioni che si sono allargate a Gaza, cosa si aspetta? Un ritorno a un’occupazione più silenziosa o uno scontro visibile?

Non so dire cosa accadrà domani. Quello che mi preoccupa è che in questo momento sul lato israeliano c’è uno scontro tra leadership machiste che di certo aiuta Netanyahu a reagire in maniera più violenta; e sul lato palestinese il rinvio delle elezioni ha prodotto un clima di ulteriore divisione, con Hamas che può mostrarsi come il solo in grado di lottare per Gerusalemme, dando ai partiti di ultradestra israeliana maggiore spazio di azione. A meno che la comunità internazionale intervenga e dica «enough is enough». Senza un intervento esterno, europeo, americano, se dovesse dipendere solo da Israele l’occupazione non terminerà mai.

 

dice Allen Cohen, 46 anni di Brooklyn militante del gruppo If Not Now, un movimento di ebrei americani per porre fine all’occupazione israeliana e trasformare la comunità ebraica Usa – Non è difficile nemmeno capire che negli Stati uniti bisogna prendere una posizione politica netta contro l’occupazione. Come ebrei eravamo disumanizzati dall’oppressione che abbiamo affrontato e ora siamo disumanizzati da quella che stiamo infliggendo. L’occupazione è un incubo quotidiano per coloro che vivono sotto di essa e un disastro morale per chi la sostiene e la amministra».

Lettera aperta di Luisa Morgantini

Perché non raccontata dell’occupazione militare? Perché non raccontate chi sono i coloni?

Ai direttori, giornalisti, corrispondenti, ai responsabili esteri dei nostri media italiani

Un giornalismo serio fa ricerca di verità e scende da cavallo!

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Vorrete perdonarmi se solo ieri vi ho inviato una lettera, per denunciare il fatto che quasi tutti i media, tranne qualche lodevole eccezione come il Manifesto, non davano risalto o notizia dei gravi avvenimenti che si stanno protraendo dal 13 aprile a Gerusalemme Est

Oggi ve ne scrivo un’altra, prometto che non diventerò un assidua scrittrice di lettere aperte rivolte ai media italiani per sollecitare un giornalismo di ricerca di verità. Mi fermerò qui, ma vi pregherei però di leggere questa mia e in qualche modo di rispondere alle affermazioni e interrogativi che vi sono contenuti.

Oggi vedo che i media ed anche ieri le tv hanno dato notizia dei feriti negli scontri a Gerusalemme Est. Nessuno riporta però ciò che le Nazioni, Unite, l’Unione Europea e il nostro governo continuano a denunciare Israele per la violazione della legalità internazionale ed a ribadire che Gerusalemme Est è occupata militarmente da Israele fin dal Giugno 1967 e che dovrebbe essere una città condivisa per due popoli e due stati.

Ma Gerusalemme continua ad essere militarmente occupata ed i palestinesi di Gerusalemme non hanno un passaporto, sono considerati residenti temporanei nelle loro case, non vengono concessi permessi loro permessi di costruire nuove case, da anni vengono scacciati e deportati.

Basterebbe che i giornalisti e i corrispondenti leggessero i documenti Onu dell’Ocha o guardassero i video e le denunce delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani israeliani da BetSelem, a Ir Amin ad Hamoked, che parlano del sistema di apartheid instaurato da Israele.

Naturalmente lo affermano e soprattutto lo vivono sulla loro pelle i palestinesi e le loro organizzazioni per i diritti umani. Nelle corrispondenze da Gerusalemme si parla della protesta dei palestinesi per “case contese”, nei documenti e nella realtà le case dalle quali le famiglie palestinesi sono state evacuate o che stanno per essere evacuati d a Sheik Jarrah sono di loro proprietà. Erano state costruite dall’Unrwa per i profughi palestinesi che si sono riversati su Gerusalemme Est dopo che erano stati cacciati da quella che fino al 14 maggio 1948, data della fondazione dello Stato d’Israele, si chiamava Palestina.

La rivolta di Sheik Jarrah è una rivolta contro l’occupazione militare israeliana, è una rivolta non solo per non essere cacciati dalle loro case ma per riuscire ad essere liberi cittadini nella loro terra e non ospiti che possono essere cacciati ad ogni momento, e scalda l’anima sapere che giovani e non giovani israeliani a Sheik Jarrah, sono al fianco dei palestinesi per dire no all’occupazione e ai coloni.

Luisa Morgantini  già Vice Presidente del Parlamento Europeo

 

Richard Falk*

La crisi israelo-palestinese si aggrava e si estende, cresce il numero di vittime, il fumo degli edifici distrutti oscura il cielo di Gaza, si susseguono rivolte nelle strade di molte città israeliane e della Cisgiordania, la polizia israeliana disturba i fedeli fin dentro la moschea di Al-Aqsa.

E protegge i coloni ebrei estremisti che gridano slogan genocidi durante le loro incursioni nei quartieri palestinesi. Alla base delle tensioni esplose fra oppressori e oppressi, gli sfratti praticamente legalizzati di sei famiglie palestinesi residenti da tempo a Sheikh Jarrah. Espulsioni che incarnano il lungo calvario palestinese, fatto di persecuzioni e di esilio in quella che anche psicologicamente rimane la loro patria. Mentre l’incubo prosegue, all’Onu le luci rimangono scandalosamente fioche. I leader occidentali invitano pateticamente alla moderazione entrambe le parti, distribuendo equamente il biasimo, mentre affermano perversamente l’unilateralità del diritto di Israele a difendersi, come se fosse stata aggredita di punto in bianco.

SI TRATTA SOLO di un ennesimo ciclo di violenza che esprime l’irresolubile scontro tra un popolo autoctono sopraffatto da un intruso coloniale in forza di un presunto diritto radicato nella religione? Oppure stiamo assistendo all’inizio della fine della lotta secolare portata strenuamente avanti dai palestinesi in difesa della loro patria, contro il progetto sionista che ha rubato la loro terra e calpestato la loro dignità, trasformandoli in estranei oppressi in quella che era stata la loro casa per secoli? Solo il tempo potrà rispondere. Intanto, possiamo aspettarci altri spargimenti di sangue, altre vittime, azioni indegne, dolore, ingiustizie. E il proseguire delle ingerenze geopolitiche.

PER GLI ISRAELIANI e gran parte dell’Occidente, la narrativa pro-israeliana continua a sottolineare la violenza di un’organizzazione terroristica, Hamas, che sfida con intenti distruttivi il pacifico Stato di Israele, rendendone ragionevole la reazione, sia per contrastare l’invio dei razzi, sia come dura lezione punitiva nei confronti di Gaza, con finalità di deterrenza rispetto a futuri attacchi terroristici. I missili e i droni israeliani sono considerati «difensivi», mentre i razzi sono atti di «terrorismo». Eppure di rado vengono colpiti bersagli umani in Israele, mentre sono le armi israeliane a causare il 95% della morti e dei danni, a Gaza dove vivono oltre due milioni di palestinesi, vittime oltretutto di un blocco illegale dal 2007.

NELL’ATTUALE CONFLITTO, il controllo di Israele sulla narrazione internazionale fa sì che il terrorismo di Stato venga sottaciuto, insieme al rifiuto opposto da Israele negli ultimi quindici anni alle mosse diplomatiche di Hamas, che pure ha ripetutamente cercato un cessate il fuoco permanente e una coesistenza pacifica.

Per i palestinesi, e per chi è solidale con la loro lotta, Israele ha consapevolmente permesso che la popolazione soggiogata di Gerusalemme Est sperimentasse una serie di angoscianti umiliazioni durante il periodo sacro del Ramadan, gettando sale su ferite già aperte, con gli sgomberi di Sheikh Jarrah, che hanno avuto l’inevitabile effetto di ravvivare nei palestinesi la memoria delle loro esperienze di pulizia etnica, giorni prima della commemorazione annuale della Nakba il 15 maggio. Si è trattato di una metaforica rievocazione di quel massiccio crimine di espulsione che accompagnò la nascita di Israele nel 1948, quando centinaia di villaggi palestinesi furono rasi al suolo, chiaro segno dell’intenzione israeliana di rendere permanente l’esilio.

A differenza del Sudafrica, che non pretese mai di essere democratico, lo Stato di Israele si è legittimato presentandosi come una democrazia costituzionale. Una volontà costata molto in termini di inganno e auto-inganno, poiché ha richiesto una continua lotta per far funzionare l’apartheid, così da assicurare la supremazia ebraica nascondendo al tempo stesso l’assoggettamento dei palestinesi. Per decenni lo Stato di Israele è riuscito a celare agli occhi del mondo questo carattere di apartheid, perché il retaggio dell’Olocausto ha assicurato un’adesione acritica al discorso sionista – la necessità di fornire rifugio ai sopravvissuti del peggior genocidio conosciuto dall’umanità.

Inoltre, la presenza ebraica stava facendo fiorire il deserto, mentre allo stesso tempo cancellava virtualmente le ingiurie inferte alla Palestina (ulteriormente sminuite dal racconto dell’arretratezza palestinese in contrasto con il coraggio modernizzatore israeliano), e più tardi dipingeva in modo caricaturale i due popoli, contrapponendo l’adesione ebraica ai valori occidentali e il presunto abbraccio palestinese del terrorismo.

SVILUPPI RECENTI nei domini simbolici della politica, che controllano l’esito delle guerre di legittimità, hanno segnato diverse vittorie per la lotta palestinese. La Corte penale internazionale ha autorizzato l’indagine sui crimini dello Stato di Israele nella Palestina occupata dal 2015, nonostante la veemente opposizione della leadership israeliana, pienamente sostenuta dagli Stati Uniti. Solo pochi anni fa, un rapporto accademico commissionato dalle Nazioni unite che accusava Israele di apartheid è stato bollato da Washington e da Israele come prova della parzialità delle Nazioni Unite. Negli ultimi mesi sia B’Tselem – la principale organizzazione non governativa israeliana per i diritti umani – che Human Rights Watch, hanno pubblicato studi accuratamente documentati che arrivano a una conclusione impressionante: Israele amministra effettivamente un regime di apartheid in tutta la Palestina storica, cioè i Territori occupati e Israele stesso.

QUESTI DUE SVILUPPI non alleviano le sofferenze palestinesi né gli effetti della perdurante negazione dei diritti fondamentali. Tuttavia, sono vittorie simboliche significative, che rafforzano moralmente la resistenza palestinese e i legami di solidarietà globale. Sulla base dei precedenti storici a partire dal 1945, si può legittimamente pensare che la parte che vince la guerra della legittimità, alla fine controllerà il risultato politico, anche se è più debole militarmente e diplomaticamente. L’esito dell’apartheid in Sudafrica rafforza questa ricalibratura dell’equilibrio delle forze nella lotta palestinese.

Il regime razzista di Pretoria, malgrado avesse, almeno in apparenza, un controllo efficace e stabile della maggioranza nera della popolazione, grazie a brutali strutture di apartheid, implose sotto il peso combinato della resistenza interna e della solidarietà internazionale. Le pressioni esterne comprendevano una campagna Bds (boicottaggio, disinvestimenti, sanzioni) ampiamente diffusa e che godeva dell’appoggio delle Nazioni Unite. Israele non è il Sudafrica in una serie di aspetti chiave, ma la combinazione fra resistenza e solidarietà è aumentata in modo evidente nella settimana scorsa.

È forse opportuno ricordare la celebre osservazione di M.K. Gandhi: «Prima ti ignorano, poi ti insultano, poi ti combattono, poi vinci».

* professore emerito di diritto internazionale all’Università di Princeton. Nel 2008, il Consiglio sui Diritti Umani ONU (Unhcr lo ha nominato per due mandate triennali Rapporteur speciale dell’Onu su “la situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967”.

Il diritto di difendere il popolo palestinese

Questione israelo-palestinese. Vogliono zittire le voci severamente critiche delle scellerate politiche di Netanyahu, fra queste quelle di democratici Usa come la deputata Ocasio Cortes e Bernie Sanders

Moni Ovadia

La prima istanza che mi pare importante sollecitare parlando della questione israelo-palestinese è quella di chiedere ad alta voce all’informazione mainstream di accogliere tutte le opinioni sul tema anche quelle considerate «estremiste» e opposte al pensiero dominante e, nel caso che qualcuno ravvisi reati di opinione lo si inviti a rivolgersi ai tribunali invece di imporre censure preventive, opzioni discriminatorie o auto censure.

Personalmente solo per avere esercitato il diritto costituzionale ad esprimere le mie opinioni a titolo personale sono diventato obiettivo di calunnie feroci e di minacce.

Ogni volta che mi sono rivolto ai principali ambiti dell’informazione televisiva per parlare della questione ho trovato un muro di gomma. Detto questo non mi lamento per la mia persona, ma per il vergognoso silenzio sulla immane tragedia del popolo palestinese. Molte sono le domande inevase nel mondo occidentale o che trovano solo risposte retoriche, ipocrite o elusive. Il sociologo Adel Jabar, già professore di sociologia dell’emigrazione alla Ca’ Foscari, ne ha poste alcune che ritengo non opponibili.

1) Fino quando deve durare la colonizzazione e l’occupazione della terra di Palestina?

2) Perché Israele non vuole la soluzione dei due stati?
3) Perché Israele non vuole la soluzione di uno stato unico binazionale? 4) Qual è l’alternativa che si dà ai palestinesi?

5) Perché per il dissidente russo Navalny si fanno boicottaggi, sanzioni economiche e campagne mediatiche ma per le sistematiche violazioni israeliane della legalità internazionale non si fa nulla?

6) L’orientamento di Hamas può anche essere condannato ma ciò è sufficiente per negare ai palestinesi il diritto alla propria terra?

A queste domande del professor Jabar vorrei aggiungerne una mia: come mai all’annuncio dato dalla Santa Sede di voler riconoscere lo Stato di Palestina il governo israeliano ha protestato? Sulla base di quale legittimità se non quella della prepotenza dell’occupante?

I fatti sono chiari. Il governo israeliano di Netanyahu non vuole nessuno Stato palestinese, in nessuna forma se non forse quella di un simulacro di autorità priva di qualsiasi sovranità su piccoli bantustan, aggregati magari alla Giordania. Le intenzioni del premier israeliano si sono bene espresse nell’avere promosso il varo della legge dello Stato-Nazione, una legge segregazionista che esclude i palestinesi israeliani dalla piena cittadinanza la quale è riservata solo agli ebrei.

Dunque i non ebrei diventano cittadini di serie b, per non parlare poi dei palestinesi dei Territori occupati che diventano paria su cui esercitare ogni tipo di arbitrio. Se qualcuno avesse dubbi al riguardo si informi sulla gestione da parte dell’autorità israeliana della pandemia da COVID 19 nei confronti dei palestinesi dei territori di cui l’occupante è responsabile per definizione secondo le più elementari convenzioni del diritto internazionale: più del 60% degli israeliani risulta vaccinato, solo il 3% i palestinesi dei Territori – senza dimenticare che in questi giorni arrivano pure a distruggere con i bombardamenti le strutture sanitarie palestinesi vitali in pandemia.

Oggi nell’infuriare dei venti di guerra prevalgono le interpretazioni più schematiche ed emotive. Questa non è una guerra anche se ne ha certe apparenze. Ma la sproporzione fra le forze è talmente soverchia che alla fine Gaza ne uscirà ulteriormente devastata ammesso che si possa parlare di più devastazione in una terra già così martoriata, gli israeliani se la caveranno con danni limitati, le vittime palestinesi si conteranno a centinaia, quelle israeliane a unità. Sia chiaro: l’uccisione di ogni essere umano è una grande tragedia ma oramai da decenni il numero delle vittime palestinesi è smisurato. I sostenitori acritici delle ragioni di Israele sempre e comunque non vedono neppure le sofferenze dei palestinesi e se qualcuno gliele indica ne attribuiscono le responsabilità a loro stessi. In questa circostanza sostengono che l’attacco dei missili di Hamas era preparato da tempo e reiterano come un mantra l’articolo dello statuto di Hamas che parla della distruzione di Israele.

Con questo vogliono chiudere la bocca alle voci severamente critiche delle scellerate politiche di Netanyahu, voci fra le quali si annoverano in questi giorni quelle di esponenti del Partito democratico degli Stati Uniti per fare qualche nome, la deputata Ocasio Cortes e Bernie Sanders, il quale per la cronaca è ebreo. Queste personalità oneste e coraggiose dovrebbero essere in particolare uno stimolo per i politici dell’Unione europea per rompere la cortina di ipocrisia e di pavida retorica che li porta ad appiattirsi sulla propaganda menzognera dell’establishment israeliano che pretende uno statuto di impunità nei confronti di una politica fondata sull’illegalità brutale di un’oppressione che non può avere alcuna giustificazione.

EDIZIONE DEL

19.05.2021

PUBBLICATO

18.5.2021, 2359

 

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